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Storia della fotografia: gli inizi

Dove e come nasce il concetto di fotografia? La parola fotografia deriva dal greco e il suo significato è scrittura con la luce. Riuscire a raccontare la storia di questa arte è qualcosa di molto complicato, per questo abbiamo scelto di riportare gli avvenimenti più importanti che hanno poi portato alla vera e propria realtà che tutti conosciamo oggi.

La primissima volta che venne descritto il processo della camera oscura era nel V secolo a.c., per mano del filosofo cinese Mo-Ti che in una sua opera riassumeva il suo pensiero legato al principio della camera oscura, descritta come una “stanza del tesoro sotto chiave”. Poi fu la volta di Aristotele che descrisse la creazione di ombre tramite un fuoco che veniva posto alle spalle degli spettatori.
Facendo un grande salto in avanti, durante il Medioevo, gli alchimisti scoprirono casualmente che combinando il cloro con l’argento si otteneva una sostanza di colore bianco al buio, mentre diventava di colore viola scuro alla luce del sole. Tale sostanza era il primo composto fotosensibile.

La camera oscura

Il termine camera oscura venne coniato da Giovanni Keplero per descrivere un ambiente buio dove, su una parete veniva praticato un foro dal quale filtravano i raggi luminosi che si incrociavano proiettando sulla parete opposta un’immagine capovolta. Numerosi riferimenti legati alla camera oscura sono legati anche a Leonardo da Vinci (1452-1519) che la usò per poter spiegare alcuni fenomeni ottici come per esempio l’inversione delle immagini da destra a sinistra o per descrivere il funzionamento di alcune funzioni visive legate alla pupilla.

Il primo a disegnare la camera oscura, nel 1544, fu il matematico olandese Rainer Frisius e successivamente si arrivò a conoscere quella che è la sua forma più classica, ovvero una scatola di legno, di forma rettangolare, con un foto stenopeico posto su un lato opposto all’altro dove era posta una lastra per osservare l’immagine che appariva poi capovolta e studiata da un pittore per poterla rappresentare su tela.

Nel 1569 Daniele Barbaro riuscì a introdurre un diaframma dalla dimensione inferiore a quella della lente per migliorare la qualità dell’immagine riflessa; solo nel 1951 fu Giovanni Battista a parlare di un apparecchio dotato di una lente utile per rendere le immagini più nitide e dotato di uno specchio per poter raddrizzare le immagini. Praticamente è l’esatto procedimento che possiamo trovare nelle fotocamere reflex più moderne.

Sono però due le date importanti legate a questo argomento: la prima è il 1646, quando Kircher realizzò una camera oscura dalle enormi dimensioni in modo da poter ospitare al suo interno più di una persona. L’altra data è il 1657 quando Schott andò a inventare una camera oscura che fosse dotata di messa a fuoco che si presentava con due scatole che scorrevano una all’interno dell’altra muovendosi avanti e indietro.

Grazie al tedesco Johann Zahn nel 1685 venne inventato il concetto che sta alla base di una macchina fotografica Reflex: applicò all’interno della camera oscura uno specchio posizionato a 45 gradi, davanti alla parete opposta al buco; posizionò poi un vetro smerigliato che aveva il compito di ricevere l’immagine ribaltata dallo specchio.

La pellicola fotosensibile

Nel XVI secolo venne notato, da parte dell’inglese Boyle, come il clorato d’argento reagiva alla luce diventando più scuro, mentre Angelo Sala scoprì che la polvere di nitrato d’argento tendeva ad annerirsi a contatto con il sole.  Solo nel 1727 però il tedesco Johann Heinrich Schulze divenne fondatore di un composto nato grazie al carbonato di calcio, all’acido cloronitrico, all’acido nitrico e all’argento capace di rispondere in base all’esposizione solare. Il nome di tale sostanza era scotophorus, che permetteva alle immagini di diventare visibili solo per un breve periodo, poiché non erano fissate e finivano per annerirsi andando a contatto con la luce del sole. Verso la fine del Settecento il ceramista inglese Thomas Wedgwood inventò la prima “pellicola fotosensibile” andando a immergere dei fogli di carta all’interno del nitrato d’argento, coprendo dall’esposizione della luce una parte dello stesso con l’uso di oggetti, sul foglio appariva la forma dell’oggetto scelto per coprirlo.  Nel 1819 Herschel scoprì il trisolfato di sodio fondamentale per fissare in modo definitivo un’immagine su un foglio imbevuto nel nitrato d’argento: così nasceva la fotografia.

La prima vera foto nella storia dell’essere umano va riconosciuta a Joseph Nicéphore Niépce, che tra il 1816 e il 1826 riuscì a riprodurre la prima immagine “automatica” che non veniva disegnata da un uomo. Niépce riuscì a catturare l’immagine con l’uso di una lastra fotografica da lui inventata: sulla lastra di rame spalmò una soluzione fotosensibile nata dal bitume di Giudea polverizzato e dell’essenza di lavanda. Asciugando la lastra, questa venne esposta all’interno a una camera oscura per diverse ore: una volta lavata tale scoperta portò alla formazione di un negativo. Per trasformarlo in positivo Niépce prese dei cristalli di iodio per metterli a contatto con la lastra.

La prima foto di un essere umano

Sono serviti 12 minuti di esposizione per ottenere la prima foto di una persona. Era il 1838, lo scatto venne realizzato a Parigi da Louis Daguerre, uomo che riuscì a mettere a punto la “dagherrotipia”, il primo procedimento fotografico per poter sviluppare le immagini che non erano però riprodotte in più copie. Nella foto (che potete vedere qui sopra) è visibile una figura umana mentre si sta facendo lucidare le scarpe in mezzo alla strada.

Lo scatto venne realizzato impostando un tempo di esposizione di circa 7 minuti, inquadrando una scena dove i marciapiedi e la stessa strada sembrano vuoti, ma ciò non significa che lo fossero veramente. E’ più probabile invece che a causa del fitto movimento, spesso repentino di cose, persone e oggetti, vi fosse ancora troppa poca sensibilità della lastra per riuscire a raccogliere ogni informazione presente sulla scena. L’unica figura realmente cattura è dunque quella che riguarda l’attività del lustrascarpe, poiché si presuppone che rimase fermo nella stessa posizione per diverso tempo.

Daguerre, nel 1839 insieme al cognato Alphonse Giroux, realizzò la prima fabbrica di macchine fotografiche.

Verso la fine dell’Ottocento

Come è facile immaginare la dagherrotipia divenne presto una vera rivoluzione sia a livello culturale che tecnologico. Verso la fine dell’Ottocento si realizzarono poi le più concrete e importanti scoperte: nel 1851 Frederick Scott Archer inventò una tecnica, del collodio umido, che permetteva di lavorare con una lastra umida, portando a un ottimo risultato che sostituì le soluzioni basate sul dagherrotipo. Nel 1861 invece grazie a James Clerk Maxwell si arriva alla definizione di sensore fotografico “analogico”, o meglio dell’RGB: con la realizzazione di tre fotografie di uno stesso soggetto su tre lastre diverse si utilizzavano i tre filtri di colore Blu, verde e rosso, arrivando così all’affermazione della fotografia a colori.

Nel 1871 Richard Leach Maddox dice addio all’umico per presentare un sistema a secco di produzione e nel 1881, grazie a Eder e Pizzighelli, prende il via la carta al cloruro d’argento, che avvicina il genere umano ai più moderni apparecchi fotografici.

Nel 1883 invece una piccola azienda americana decise di mettere in vendita una fotocamere in grado di separare i processi di preparazione, ripresa, sviluppo e stampa della foto: era la Kodak, che nel giro di 5 anni diede la possibilità a chiunque di poter acquistare un apparecchio fotografico e scattare autonomamente le fotografie.

A chiudere il lungo capitolo della fotografia nel 1800 furono i fratelli Lumière che nel 1895 inventano il cinematografo, che oltre a poter registrare le immagini, poteva operare sulle pellicole di dimensione “ridotta”, da 35mm, misura che diventerà lo standard per il settore fotografico.